Vento di speranza




L’eruzione era più violenta di quanto previsto. Dai nuovi crateri accessori, sorti nella notte a seguito di violenti terremoti, fuoriuscivano fiotti di lava incandescente. Spettacolari fontane di sangue lanciavano pericolosi schizzi rossastri a diversi metri di distanza.

In poche ore si erano formati sulle pendici del vulcano due fiumi di lava che, con percorsi distinti, scendevano fino alla spiaggia nera dove si riunivano prima di entrare in mare. Nel punto di quell’incontro così inusuale si era formata come una gobba sinuosa che, lentamente, andava da un rosso vivo fino ad uno spento marrone scuro. L’acqua era un continuo ribollire e la visibilità era pesantemente limitata dall’incessante formazione di vapore acqueo.

Intanto, ignari della propria fine, i due torrenti di porpora continuavano a scorrere e, di tanto in tanto, formavano percorsi imprevisti che non mancarono di passare per i magnifici boschi dell’isolotto.

Alla seconda settimana dal primo terremoto l’eruzione terminò lasciando il passo ad un panorama marziano. Ogni cosa era nerastra. Non una foglia attaccata ai rami degli alberi. Non un albero che non fosse nero come la pece o, peggio, piegato sul terreno. Visto dall’alto, l’isolotto si era ridotto ad un triste scoglio nero che forava la superficie dell’oceano.

Passò un anno prima che l’ultimo abitante abbandonasse l’isola: senza più speranza lo vidi salire sulla barca con il volto in lacrime.

Un altro anno e un altro ancora e Little Island stentava a riprendersi dalla fatica di tre anni prima.

Il miracolo arrivò una mattina di primavera: una piccola piantina, esile e indifesa, riuscì a sbucare fuori dalla lava indurita sfruttando alcune delle infinite cavità di quel minerale che, per formarsi, aveva distrutto ogni cosa. Le radici non ebbero difficoltà a trarre nutrimento da quel terreno e la pianta crebbe forte e rigogliosa.

Nei giorni successivi altre piantine forarono il manto nero e, incoraggiate dalla prima, colorarono di verde l’isolotto che divenne più bello di come fosse mai stato.

Ancora oggi, a trentanove anni dall’eruzione, passo spesso a salutare l’albero nel quale si è trasformata quella prima piantina. Mi insinuo tra le sue foglie, accarezzandole. Scombino delicatamente le fronde, muovendo i rami. Ridendo, trasporto lontano i suoi semi ricordandomi di quando, in quel giorno di primavera, depositai quel piccolo semino sulla terra nera.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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