La scala


scala verso il cielo

"Perché fai così?”
Margherita guardò il fratello con aria interrogativa.
"Così come?", disse, "non credi sia normale che mi preoccupi almeno un po'?"
"Come vuoi", disse lui, "anche se credo tu stia esagerando. Funzionerà e non ci scopriranno."
I due uscirono in silenzio dalla stanza. Quel pomeriggio avrebbero cercato di raggiungere la scala.


La scala di Minetri era nota in tutta la regione. Si alzava da una zona selvaggia del parco cittadino e sfidava le leggi della fisica salendo fino a perdersi nel blu del cielo o fino a bucare le nuvole nelle giornate piovose.

Nessuno sapeva dove conducesse. Effettivamente, a memoria d'uomo nessuno era mai riuscito a calpestare o anche solo a scorgere il primo gradino della scala: i rami del boschetto cittadino si intrecciavano così intensamente con i rovi a terra da rendere impossibile anche avvicinarsi alla base della scala.

Durante le stagioni passate molti uomini avevano cercato di raggiungere l’inizio della salita ma senza successo. Ogni rovo estirpato dava vita a due rovi ancora più grandi del primo e ogni ramo tagliato metteva radici non appena toccava terra diventando un albero adulto in pochi attimi.

Così l’unico risultato prodotto dai tanti tentativi era stato quello di allontanare ancora di più la base della scala dal perimetro del boschetto circolare che occupava ormai un'immensa area al centro della città.

Preoccupato dalla progressiva perdita di suolo cittadino per l'avanzare del boschetto, un sindaco di qualche secolo prima aveva vietato ogni tentativo di raggiungere la scala. Da allora quasi nessuno ci aveva più provato e i pochi intraprendenti erano stati scoperti e puniti duramente.

In realtà non c'erano grandi ragioni per cercare di raggiungere la scala. Nessuno sapeva dove portasse e in molti dubitavano perfino che giungesse in qualche luogo. La maggior parte degli studiosi di Minetri era convinta che la scala si interrompesse bruscamente in cielo e altri ritenevano perfino impossibile che potesse reggere il peso di un solo uomo senza crollare irrimediabilmente.



Margherita scivolò lungo il muro perimetrale del parco cittadino e raggiunse il cancello principale superandolo attenta a non incrociare lo sguardo delle due sentinelle. Si fermò a un preciso punto della parete circolare e attese finché non arrivò una corda dall'altra parte del muro. Suo fratello era penetrato nel parco attraverso una crepa apertasi qualche giorno prima per via di alcune infiltrazioni d'acqua. Era stato arduo attraversarla ma era l'unico modo di entrare senza passare dai varchi sorvegliati.

In pochi minuti i due giunsero al boschetto interno che si ergeva imponente e compatto tanto che lo spessore del muro verde poteva solo essere immaginato. I due fratelli non avevano portato nessun tipo di attrezzatura per cercare di far breccia sul muro di rovi e rami che si trovavano davanti e si limitarono a sedersi in due punti opposti della macchia circolare.

Margherita si posizionò a gambe incrociate guardando il boschetto nella direzione di suo fratello che fece lo stesso guardando verso di lei. Entrambi presero a riflettere intensamente, pensando non all'idea di raggiungere la scala ma a quella di ritrovarsi a vicenda.

L'uno immaginava di riabbracciare l'altra in mezzo al bosco e l'altra faceva lo stesso immaginando la linea ideale che li separava che altro non era se non il diametro di quel peculiare groviglio verde.

Ad un tratto Margherita sentì un piccolo rumore, come di un rametto calpestato da un uomo. Ne seguì un altro simile e poi un altro ancora finché il boschetto iniziò a vibrare nella direzione del fratello crepitando come fa un fuoco di rovere.

Un paio di foglie caddero mentre le trecce di rovi che la ragazza aveva davanti si spostavano a destra e a sinistra creando un abside di foglie e spine. Margherita si alzò da terra ed entrò in quella nicchia della parete verde che lentamente avanzava in direzione del centro.

Dopo tre o quattro passi all'interno del boschetto Margherita si rese conto che la parete di rovi e rami si era richiusa dietro di lei. Non c'era più modo di tornare indietro.

Si fece coraggio e continuò ad avanzare nelle viscere di quella parete viva mentre l'ultimo raggio di luce scompariva dietro di lei. Proseguì avvolta nelle tenebre per alcuni lunghissimi minuti finché, con il cuore in gola, non intravide una luce fioca davanti a se.

"Margherita. Margherita. Mi senti?"

Sentì la voce del fratello che la chiamava sempre più chiaramente.

"Eccomi. Ti sento."

E iniziò a correre e i rami le si aprivano davanti per poi richiudersi alle sue spalle finché non si trovò all'aperto, il cielo sopra di lei e suo fratello che le correva incontro.

Dopo un abbraccio di liberazione i due iniziarono a guardarsi intorno e si resero conto di trovarsi in un'area circolare, completamente delimitata dal boschetto. Al centro di quella piazza naturale la scala iniziava la sua salita apparentemente illimitata. Era circondata da un elegante recinto in ferro battuto aperto proprio in direzione del primo gradino.

La scala era di semplice pietra bianca e poggiava a terra delicatamente dando l'aria di non pesare nulla.

"Andiamo?", chiese Margherita.

"Andiamo."



Il giorno dopo in molti a Minetri giurarono di aver visto due piccole sagome salire la scala fino a perdersi nel cielo.

Si fecero delle indagini e si appurò che il boschetto era più impenetrabile che mai. Quasi tutti furono daccordo nel dire che si era trattato di uno scherzo del sole al tramonto.

Qualcuno, però, continua a raccontare ai propri figli di quella volta che, al tramonto, due sagome scomparvero nel cielo tenendosi per mano.

Salvatore Teresi


[image via WallpaperDisk]

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L'uomo parla al mare




L’uomo parla al mare. Il vecchio uomo parla al mare e racconta storie dimenticate, racconta i ricordi di una vita, racconta gli errori di cui si è pentito e quelli che rifarebbe senza cambiare nulla.

Qualche lustro fa raccontava sogni, ora di quelli non ce n'è più. Il futuro è sempre stato incerto, anche negli anni d'oro, ma oggi il vecchio uomo vive di solo passato e lo mira e lo rimira riflesso negli scintillii delle onde che battono il bagnasciuga.

Il vecchio uomo parla al mare da sempre e le sue illusioni di ricevere risposte si sono perse lentamente come un castello di sabbia al giungere della marea.

Qualche volta gli è parso di sentire la voce del mare risolvere i suoi dubbi fusa insieme al vento ma ha poi trovato che era solo l'eco di se stesso. Il mare respira onda dopo onda e rimane lì, ascoltatore perfetto e infinito capace di conservare nei sui abissi i segreti dell'animo più alto.

L'uomo parla al mare e aspetta la dama ultima che lo riporterà a casa. Si chiede quando uscirà dalle acque, il portamento elegante e l'abito bianco perso nella spuma e protenderà le braccia, sorridente, verso di lui per la stretta senza tempo.

L'animo abbraccia l'abisso e si apre alle onde che lavorano invisibili a levigare, carezza dopo carezza e schiaffo dopo schiaffo. L’uomo parla al mare e l'uomo parla all'uomo.

Salvatore Teresi

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La foto



Raccolsi la foto scivolata tra la testata del letto e la parete. Da dietro la polvere di mesi di pulizie poco approfondite due figure mi osservavano sorridenti, apparentemente appagate da quell’esistenza dentro un attimo rubato al tempo. Non ricordavo quella fotografia, eppure mi ritraeva così felice.

Iniziai a cercare particolari che potessero aiutarmi a riconoscere il luogo e la data dello scatto: una fila di lampioni che dipingevano d’ambra una strada deserta, il profilo di una rocca appena illuminata sullo sfondo e il basso rilevo delle curve di sabbia di una lunga spiaggia.

Improvvisamente ricordai tutto.



Era l’estate di qualche anno prima. Laura era così bella quella sera: i suoi occhi sembravano più grandi del solito e il suo ciuffetto ribelle scendeva dalla fronte al mento in un’elegante spirale che mi ipnotizzava ogni volta. Non era vestita in modo troppo elegante. Come al solito aveva trovato il perfetto mix tra curato e trasandato che le donava un’interessante aria da giovane intellettuale.

Avevamo litigato quella sera, in una lunga e appassionata discussione sul tipo di scelta politica di ogni individuo e sulla cooperazione tra gli uomini necessaria a cambiare il mondo. Quella differenza di idee così marcata mi faceva sempre paura. Com’era possibile continuare la nostra storia senza poter condividere con lei le mie scelte più ferme?

Fu allora che mi propose una passeggiata sulla spiaggia. Come al solito non seppi dire di no al suo sguardo così profondo e lasciai perdere i miei dubbi o meglio ci provai visto che, per quanto mi fossi sforzato, non riuscii a togliermi quei pensieri dalla testa.

“Ci facciamo una foto?”

Mi svegliai come da un sonno leggero: aveva parlato a lungo durante la passeggiata ma io avevo continuato a pensare a quelle nostre differenze che mi impensierivano tanto.

Tirò fuori dallo zainetto la sua fotocamera compatta e allungò il braccio cercando di sistemare alla meno peggio l’inquadratura.

“Sorridi.”

E io sorrisi, esibendomi in una smorfia forzata ma estremamente convincente. Nella foto sembravo talmente felice da ingannare perfino me stesso.



Il ricordo di quel sorriso ipocrita mi regalò una spiacevole sensazione di profondo disgusto. Mi chiesi cosa fare di quella foto che per me rappresentava solo un sottile tentativo di modificare ad arte il mio ricordo di quella serata da dimenticare.

Mi adagiai pensieroso sulla poltrona e stavo proprio per strappare la foto quando Laura entrò nella stanza sorridente e notò subito la fotografia che stringevo in mano. La prese curiosa e, con un energico soffio, tolse la polvere che la ricopriva.

“Una delle mie foto preferite. Pensavo l’avessimo persa. Che ne dici se ne facciamo un quadretto a ricordo di quella magnifica serata?”

“D’accordo.”, risposi.

Salvatore Teresi

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Jazz



La playlist continuava a scorrere facendomi venire i brividi sulla schiena e la pelle d’oca alle braccia. L’avevo composta con cura: ogni singolo brano mi trasmetteva delle emozioni forti, di quelle che ti fanno prima alzare lo sguardo, poi chiudere gli occhi e infine sognare.

Quella notte non avevo alcuna voglia di dormire e tentavo di rendere fruttuose le ore di veglia scrivendo un racconto. Usavo spesso la musica come musa per l’incipit dei miei racconti.

Dal vibrare potente del contrabasso al soffio delicato del flauto traverso, dalla danza dei martelletti sulle corde del pianoforte alla voce nasale del clarinetto. Ogni suono amplificava parti sconosciute di me. Apriva cassetti nascosti.

Jazz”, così si chiamava la playlist che avevo scelto quella volta dopo un breve indugiare del puntatore sulla raccolta dei cantautori italiani.

C’era un lento assolo di una tromba con sordina quando vidi delinearsi piano piano una figura che, al lento ritmo che le spazzole battevano sul piatto, si allontanava da me. Era un anziano uomo che, un po’ ricurvo su se stesso, si avviava verso chissà dove trascinando un piede dopo l’altro.


Mi sfilai le cuffie dalle orecchie. Toccava a me dirigere l’orchestra.


Il vecchio uomo vestiva una camicia di seta bianca, leggermente sbottonata vicino al collo, infilata in un paio di pantaloni di lino beige con una cintura di pelle marrone. Ai piedi un paio di sandali di ottima fattura del tipo di pelle della cintura.

L’anziano camminava su un marciapiede costeggiando un alto edificio di mattoni rossi. Nessuna auto in strada. Iniziai a correre nella nebbia che precede l’alba e lo raggiunsi in un attimo. Naturalmente, non poteva vedermi.

Lo guardai in viso. Trovai un’espressione triste e rassegnata. Decine di rughe gli solcavano il volto come cicatrici di una vita che non ci era andata leggera. Iniziai a camminare accanto a lui.

Passo dopo passo, una figura imponente si staccava dalla nebbia. Era uno dei due piloni del Bay Bridge, il famoso ponte di San Francisco. Il vecchio iniziò a percorrerlo fermandosi di tanto in tanto per chiudere gli occhi e sentire il vento spingere deciso sul suo volto.

Esausto ma determinato a raggiungere la propria meta, l’anziano uomo si trascinava appoggiandosi alla balaustra ferrosa. Ad un tratto il vecchio si fermò e, con estrema diifficoltà, si piego sulle ginocchia.

Su uno degli infiniti piloncini metallici della balaustra erano incise due lettere consumate dalla ruggine degli anni. Un cuore stilizzato segnato con tratto incerto le incorniciava insieme ad una data ormai illeggibile.

L’uomo poggiò la sua mano nodosa sulla vecchia incisione, come a voler ricercare nel freddo metallo un’emozione scomparsa nel tempo. Una lacrima si perse nell’umidità mattutina che ricopriva il ponte.


Qualche ora più tardi, due sandali di pelle giacevano vicino la balaustra pedonale quasi a metà del Bay Bridge di San Francisco. Erano davvero di ottima fattura.

Salvatore Teresi




[L’immagine del post è in vendita su Art.com]

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Il gatto


gatto, giardino, cat, flower


Il cielo tuonò improvvisamente e Francesca staccò lo sguardo dal computer portatile sulla sua scrivania e si girò di scatto verso la finestra. Non pioveva ancora. Per l’ennesima volta il mondo sembrava immobile, bloccato in un limbo dello spazio e del tempo da una luce grigiastra che pesava sui tetti. L’orizzonte era coperto da nuvole scure in tutte le direzioni e anche il cielo era grigio ma la pioggia tardava ad arrivare. Quell’anno era capitato spesso.

Stavolta, però, il temporale era solo questione di minuti perché, ovunque, le rondini volavano veloci verso il proprio nido coscienti che, di lì a poco, l’acqua avrebbe reso più difficili i movimenti delle ali. Dopo una rapida occhiata all’orologio del portatile, Francesca sbuffò seccamente scoprendo che era già ora di cena. Un post-it appeso sulla credenza la avvisava che avrebbe cenato da sola.

Una volta aperto lo sportello del frigo afferrò annoiata la bottiglia di latte scremato che aveva aperto il pomeriggio precedente e ne versò una buona quantità in una tazza piena di cereali. Non aveva alcuna voglia di cucinare.

Consumata velocemente la cena improvvisata, il pensiero andò subito al capitolo di letteratura inglese che non era riuscita a completare e che occupava prepotentemente l’intero schermo del portatile. Si avviò a passo svelto verso la scrivania credendo che avrebbe continuato a studiare ma, appena seduta, si rese conto che non ne aveva alcuna voglia e chiuse lo schermo del notebook con un movimento rapido ma pieno di soddisfazione mentre un furbo sorrisetto le si dipingeva in volto evidenziando la fossetta che aveva sulla guancia destra.

Il cielo tuonò ancora con un suono sordo chiamando Francesca alla finestra. Stava diluviando e fulmini caduti chissà dove illuminavano il cielo facendo più flash di un paparazzo scatenato davanti alla celebrità del momento. Un temporale così non si vedeva da tempo.

L’attenzione della ragazza fu richiamata dal miagolio lamentoso di un gatto che, zuppo, cercava di ripararsi come meglio poteva sotto l’arco del cancelletto in giardino. Francesca non era una grande amante degli animali ma quel gatto le fece una tale pena che decise di tentare di avvicinarlo per portarlo in casa a scaldarsi.

Presa una scatola sufficientemente capiente uscì in giardino e si avvio verso il gatto mentre rivoli di pioggia le scendevano dai capelli sulle gote. Soffiava un vento fortissimo che costringeva la pioggia ad una caduta profondamente inclinata. Il felino, spaventato da quella figura sconosciuta, fece come per andarsene ma il rumore dei croccantini nella scatola gli ricordò la sua vecchia famiglia e lo portò a tornare sui suoi passi e ad entrare nella scatola che intanto era stata poggiata sull’erba.

Francesca portò la scatola in casa mentre il gatto, di nuovo impaurito, si era stretto in un angolo cercando di farsi piccolo. Arrivata in casa, la ragazza poggiò la scatola sul tappeto del soggiorno e si mise ad osservare il gatto che poco a poco andava calmandosi mangiando i pochi croccantini rimasti sul fondo.

Francesca riempì un piatto di croccantini sperando che il gatto, una volta terminata la portata, sarebbe uscito dalla scatola in cerca di altro cibo e di calore. E così fu.

Il micio uscì con un movimento elegante e si chinò sul piatto per continuare il pasto interrotto. Ascoltando le rassicuranti fusa del gatto Francesca raccolse tutto il suo coraggio e allungò la mano sul peloso collo del felino il quale, dopo un iniziale attimo di sospettosa esitazione, tornò al suo piatto lasciandosi accarezzare dalla ragazza.

Il temporale primaverile era finito, anche se le nuvole coprivano ancora il cielo impedendo la vista delle prime stelle della sera. Francesca aprì la porta di casa sicura che il gatto, sazio e asciutto, sarebbe schizzato via senza voltarsi indietro ma così non fu: dopo due giri su se stesso il felino si era sistemato sul tappeto ed aveva cominciato a ronfare. La ragazza chiuse la porta e lasciò che il gatto passasse la notte a casa sua.

Al mattino Francesca fu svegliata da un potente raggio di sole sugli occhi. Arrivata in soggiorno trovò il tappeto vuoto e si mise a cercare il gatto sperando di non trovare troppi danni in giro per casa. Durante la ricerca si fermò di scatto vedendo che la scatola che aveva usato per portare il gatto dentro casa era ancora sull’armadio, piena delle sue scarpe vecchie, come sempre. Non ricordava di averla rimessa lassù.

Ritornò in soggiorno e si accorse che era scomparsa dal tappeto la grossa chiazza d’acqua e fango che il gatto aveva lasciato uscendo dalla scatola. Doveva aver sognato. Non c’era altra spiegazione. Avrebbe dovuto capirlo da quella scatola di croccantini per gatti arrivata da chissà dove.

Ancora col pensiero fisso a quello strano sogno così reale, la ragazza si vestì e uscì da casa diretta in facoltà. Aprì la porta strizzando gli occhi colpita dal forte sole di quella mattinata, attraversò il giardino frugando nella borsa a tracolla alla ricerca delle chiavi del cancelletto. Trovatele lo aprì per poi fermarsi subito dopo, come fulminata.

Il gatto la osservava con fare interrogativo dall’altra parte della strada. Francesca lasciò cadere la tracolla e il felino scappò in direzione delle campagne, spaventato.

La ragazza cerco di seguirne il percorso ma poi, accecata dalla luce del sole, lasciò perdere e si chinò a raccogliere la tracolla e gli appunti che ne erano usciti. Camminando verso la facoltà un ampio sorriso le illuminò il volto: tornando a casa avrebbe acquistato una scatola di croccantini per gatti.

Salvatore Teresi

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Nuvole




Esausta, Clara si era fermata un instante al margine del sentiero ed aveva sfilato dallo zaino strapieno una borraccia tutta ammaccata rivestita di feltro rosso.
"Due sorsi e si riparte", disse tra se e se.
Invece, poco distante da lei, intravide una grande roccia completamente ricoperta di morbido muschio verde.
"E se mi fermassi a riposare per un po'? Che mai saranno dieci minuti di ritardo sulla tabella di marcia?", si confortò.
E si sedette.

"Come si sta bene! Questa roccia è una poltrona naturale.", pensò.
E iniziò a guardarsi intorno, rilassata, finché il suo sguardo non si posò sul sentiero che stava percorrendo. Seguì la scia delle impronte che aveva inciso sulla terra asciutta e sabbiosa. La seguì finché divenne una linea così sottile che dovette strizzare gli occhi per distinguerla dal resto della pista.

Quando la traccia si confuse col paesaggio gli occhi si arresero e cedettero il passo alle immagini dei ricordi e allora, come la pioggia che inizia a cadere d'improvviso, Clara si ricordò dell'ultimo bivio che aveva incrociato. E poi di quello prima. E poi della biforcazione della settimana passata e così via dicendo.

Come macigni in una frana, le sue scelte passate le ricadevano addosso: "E se fossi andata a destra? E se avessi continuato verso quel boschetto di olmi? E se non avessi rifiutato il passaggio di quel fattore?"

Le lacrime cominciarono a solcare lentamente il volto della giovane viandante alimentate dalla cascata di rimpianti e di rimorsi che si era formata inaspettatamente. La tranquillità di un minuto prima era solo un ricordo e la solitudine si faceva sentire come non mai.

Ad un tratto, piegata ad un istinto intrinseco della natura umana, Clara alzò gli occhi al cielo e vide dei grossi e maestosi cumulonembi dipinti di un bianco purissimo. Come incantata, la ragazza restò a fissare le nuvole assistendo all'arte spettacolare del vento che piano piano andava modellando con maestria quella materia così delicata.

"Il vento è uno scultore paziente capace di opere tanto meravigliose quanto effimere. Non gli importa se la maggiorparte degli uomini, troppo occupata a vivere, ignora da sempre le sue sculture bianche. Non se la prende se pensa alla sorte delle sue creazioni passate, cadute come pioggia dalla vetrina del cielo. Il vento non ha rimpianti. Gli basta inspirare i poeti che restano ore e ore ad osservare l'evoluzione dei cirri. Gli basta incantare i bambini che riconoscono nelle nuvole bianche le forme più strane. Si accontenta di consolare chi è triste e cerca conforto in alto."

Tornando a guardare il sentiero da cui veniva, la viandante scoppiò in una grossa risata e volse lo sguardo in avanti con il vento che le soffiava alle spalle e le sussurrava parole di speranza.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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Inseguendo l'orizzonte


Man horizon, uomo, orizzonte, mare

Ero lì, a guardare il cielo, quando un grosso albatro attirò la mia attenzione e fece come per avvicinarsi a me. Con uno scatto repentino mi nascosi in una piccola cavità della roccia sulla quale mi riposavo. Ora ero al sicuro, ma godevo ancora di una visuale privilegiata su buona parte della spiaggia.

Intanto l’albatro era sceso a terra con un movimento apparentemente scoordinato e si era appollaiato in cima ad uno scoglio appuntito, a una decina di metri da dove mi trovavo. Forse non mi aveva nemmeno notato e io mi ero spaventato per nulla.

Improvvisamente vidi scattare il collo del grosso volatile in direzione di un punto preciso della spiaggia che era fuori dalla mia visuale. L’albatro sembrava spaventato anche se ancora dubbioso sul da farsi. Finalmente ruppe gli indugi e decise di alzarsi in volo con una manovra che mi parve indecisa alla pari di quella dell’atterraggio. Lo vidi allontanarsi verso il mare con grossi colpi d’ali e con le zampe che erano quasi scomparse tra le piume del corpo.

Sentii dei suoni provenire dalla direzione verso la quale l’albatro si era voltato spaventato e, pochi istanti dopo, vidi arrivare due figure che si muovevano nel bagnasciuga. Erano due uomini. Uno dei due aveva i capelli bianchi e un ciuffo di peli sul mento. L’altro, invece, doveva essere un cucciolo umano vista la grande differenza di altezza con il primo uomo.

I due si avvicinarono allo scoglio sul quale mi riparavo e, steso un piccolo telo, si sedettero sulla spiaggia. Il bambino giaceva con le gambe incrociate e giocherellava distrattamente facendo rotolare un ciottolo grigio tra le mani. Il vecchio uomo, invece, se ne stava ritto con le gambe ossute allungate davanti a sé e con lo sguardo fisso su un punto imprecisato tra le onde.

Così, nel silenzio, passarono due o tre minuti e intuì che il bambino doveva essersi stancato di mirare e rimirare il sasso levigato che teneva in mano perché lo lanciò violentemente in acqua provocando un tonfo sordo e anche qualche schizzo. A quel gesto l’uomo più anziano ebbe un sussulto, come se in quel momento si fosse destato da un sonno leggero.

“Ti ho spaventato nonno?”, chiese il bambino che si era accorto della strana reazione.
“Solo un po’.”, rispose l’anziano parente. “Ero soprappensiero”.
Sicuramente il bambino non si ritenne soddisfatto da quella risposta perché incalzò subito: “E a cosa pensavi?”.
“Non stavo pensando. Inseguivo l’orizzonte!”
“Inseguivi l’orizzonte?”, ripeté interrogativo il nipote.
“Vedi quella linea tra mare e cielo? Avevo giusto la tua età quando decisi che l’avrei raggiunta e che ci avrei camminato sopra come fa un funambolo con la sua corda.”
“E ci sei riuscito?”, chiese ingenuamente il bambino provocando un sorriso nel volto del vecchio uomo.
“No! È tutta la vita che la inseguo ma quando credo di avere fatto tanta strada, quando credo di essermi avvicinato abbastanza, mi basta alzare lo sguardo per vederla sempre là, dove l’avevo lasciata l’ultima volta. Sai tenere un segreto?”
“Certo!”
“Dopo tutti questi anni ho capito: l’importante non è toccare quella linea. L’importante è continuare ad inseguirla senza arrendersi. Anche se ti sembra impossibile, anche se qualcuno ti deride, anche se ti senti solo. Vedi, Giacomo, per quanto tu possa camminare nella sua direzione, l’orizzonte sarà sempre lì, a ricordarti che non si arriva mai. Un giorno capirai quanto ti ho rivelato e allora, quando ti siederai sulla spiaggia a guardare l’orizzonte come stavo facendo prima, capirai che hai fatto tanta strada e che ti sei avvicinato parecchio. Se avrai camminato ogni giorno nella giusta direzione potrai chiudere gli occhi e stendere la tua mano sull’orizzonte con la facilità con cui prendo questo granchio.”

A quelle parole vidi la mano rugosa dell’uomo avanzare verso di me e subito dopo mi sentii sollevare da terra. Non vedevo più nulla e per istinto iniziai ad agitare le zampe spaventato. Finalmente mi ritrovai sulla calda sabbia e ritornai a vedere. Prima di scappare in direzione del mare diedi un ultimo sguardo ai due uomini che avevano parlato in modo tanto strano e li vidi ridere di gusto mentre raccoglievano il telo e si allontanavano insieme.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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La foglia e la quercia


Foglie lobulate, quercia, ghiande,

Lo zaino pesava sulle mie spalle mentre percorrevo quel sentiero in salita. Non ero neanche a metà strada, eppure mi sentivo esausto. Dall’alto della sua posizione, il sole non mancava di farmi arrivare i suoi raggi che nei giorni scorsi avevano dipinto il mio naso e le mie guance di un rosso scarlatto.

Alzai gli occhi per cercare la fine di quella salita interminabile e, mentre l’ennesimo rivolo di sudore mi attraversava la fronte, notai un grande albero poco distante dal sentiero. Come chi non beve da giorni e scorge una fontanella in lontananza, raccolsi tutte le mie forze e aumentai il passo per raggiungere il più velocemente possibile l’ombra di quell’albero.

Una volta arrivato, lasciai cadere pesantemente lo zaino a terra e subito lo seguii coricandomi sull’erba e usando lo zaino come cuscino. Mentre prendevo fiato aprii gli occhi e mi resi conto che mi ero steso sotto una grande quercia; ad occhio e croce doveva avere più di cento anni.

Il vento mosse le fronde e, carezzandomi il viso, mi provocò dei piacevoli brividi che attraversarono velocemente la mia schiena. Fu a quel punto che la quercia iniziò a parlarmi.

Ciao viandante”, mi salutò. E subito prese a raccontarmi una storia mentre io ascoltavo in silenzio.


“Vedi quante foglie coprono i miei vecchi e nodosi rami? Se mi guardi da lontano non lo noti, ma ognuna di esse è diversa dalle altre ed ha una sua storia personale. Io conosco tutte le mie foglie, ricordo i loro nomi e le curo al meglio delle mie possibilità. Non manco di nutrirle ogni giorno e di farle crescere in modo che ad ognuna di esse non manchi mai il bacio del sole.

Qualche tempo fa accolsi una fogliolina e la amai fin dal primo istante. La chiamai Fiammetta perché vidi in lei una luce particolare. Fiammetta crebbe velocemente e divenne una delle foglie più belle tra quelle nate nei miei rami. I suoi lobi erano simmetrici, le sue venature erano ordinatissime ed il suo verde era paragonabile a quello di uno smeraldo puro.

Misi tutte le mie forze nel proteggere Fiammetta dal vento e da tutti i parassiti. Lei lavorava ogni giorno più di tutte le sue sorelle e produceva di più trasformando il bacio del sole in gemme preziose che mi donava immediatamente.

In una mattina di pioggia balenò nella testa di Fiammetta un pensiero mai provato prima: “Se io valgo e lavoro più di tutte le mie sorelle,” si chiese, “perché ricevo lo stesso nutrimento? Dovrei averne di più per crescere ancora e diventare più bella.”

Nell’udire questo pensiero mi rattristai parecchio e ammonii Fiammetta imponendole di non pensare più in quel modo perché nulla sarebbe cambiato. Le spiegai che io amavo lei e le sue sorelle nello stesso modo, anche se lei si impegnava di più.

Lei non apprezzò la mia risposta e si staccò dai miei rami, convinta di poter diventare una quercia più grande e più bella di me. Si staccò e si lanciò nel vuoto con l’intento di posarsi al suolo e di piantare radici sue.”



“E poi?”, osai chiedere visto che era sceso il silenzio. Il silenzio non si interruppe e capii che il racconto era finito e che dovevo ripartire. Mi alzai in piedi, misi lo zaino sulle spalle e feci un passo per ritornare al mio sentiero.

CRAC!

Sentii un forte rumore sotto il mio scarponcino da trekking e lo alzai subito per vedere cosa avevo calpestato. In mezzo all’erba verde c’era una foglia secca, contorta su se stessa. La raccolsi e la depositai alla base del tronco dell’albero.

Ritornai al mio sentiero e, continuando la salita, mi parve di sentire nel vento il pianto della quercia per la sorte di Fiammetta.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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Vento di speranza




L’eruzione era più violenta di quanto previsto. Dai nuovi crateri accessori, sorti nella notte a seguito di violenti terremoti, fuoriuscivano fiotti di lava incandescente. Spettacolari fontane di sangue lanciavano pericolosi schizzi rossastri a diversi metri di distanza.

In poche ore si erano formati sulle pendici del vulcano due fiumi di lava che, con percorsi distinti, scendevano fino alla spiaggia nera dove si riunivano prima di entrare in mare. Nel punto di quell’incontro così inusuale si era formata come una gobba sinuosa che, lentamente, andava da un rosso vivo fino ad uno spento marrone scuro. L’acqua era un continuo ribollire e la visibilità era pesantemente limitata dall’incessante formazione di vapore acqueo.

Intanto, ignari della propria fine, i due torrenti di porpora continuavano a scorrere e, di tanto in tanto, formavano percorsi imprevisti che non mancarono di passare per i magnifici boschi dell’isolotto.

Alla seconda settimana dal primo terremoto l’eruzione terminò lasciando il passo ad un panorama marziano. Ogni cosa era nerastra. Non una foglia attaccata ai rami degli alberi. Non un albero che non fosse nero come la pece o, peggio, piegato sul terreno. Visto dall’alto, l’isolotto si era ridotto ad un triste scoglio nero che forava la superficie dell’oceano.

Passò un anno prima che l’ultimo abitante abbandonasse l’isola: senza più speranza lo vidi salire sulla barca con il volto in lacrime.

Un altro anno e un altro ancora e Little Island stentava a riprendersi dalla fatica di tre anni prima.

Il miracolo arrivò una mattina di primavera: una piccola piantina, esile e indifesa, riuscì a sbucare fuori dalla lava indurita sfruttando alcune delle infinite cavità di quel minerale che, per formarsi, aveva distrutto ogni cosa. Le radici non ebbero difficoltà a trarre nutrimento da quel terreno e la pianta crebbe forte e rigogliosa.

Nei giorni successivi altre piantine forarono il manto nero e, incoraggiate dalla prima, colorarono di verde l’isolotto che divenne più bello di come fosse mai stato.

Ancora oggi, a trentanove anni dall’eruzione, passo spesso a salutare l’albero nel quale si è trasformata quella prima piantina. Mi insinuo tra le sue foglie, accarezzandole. Scombino delicatamente le fronde, muovendo i rami. Ridendo, trasporto lontano i suoi semi ricordandomi di quando, in quel giorno di primavera, depositai quel piccolo semino sulla terra nera.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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Luna


Luna

Il piccolo Marco restò estasiato dalla visione della luna piena di quella notte. La guardava, sospesa nel cielo, appesa a una miriade di fili invisibili che non lasciavano traccia. La guardava e i suoi occhi brillavano. Il suo cuore, piano piano, si riempiva di gioia.

Papà”, disse Marco interrompendo il silenzio, “hai visto com’è bella? Hai visto quanta luce?”
Certo Marco!”, rispose il padre. “La luna è davvero meravigliosa. Vuoi sapere una cosa sulla luna?”.
“Cosa?”, rispose prontamente il bambino, fremendo per la curiosità che a quell’età rende ogni cosa eccezionale.
“Vedi”, riprese il padre, “la luna non emana luce”.

Il bambino restò dubbioso su quella risposta così assurda.

“Ma io vedo la luce”, rispose subito.

Il padre guardò il proprio figlio con uno sguardo gonfio d’amore e lo prese in braccio ridendo.

“Marco, ti ricordi di quando eravamo al laghetto, ieri mattina?”
“Certo papà! Mi sono divertito tantissimo.”
“Prima di pranzo giocavi con lo specchietto che ti ha regalato la nonna, e mi accecavi puntandomi la luce sugli occhi”

“Mi ricordo, stavi anche per cadere in acqua”, disse il bambino ridendo divertito.
“Sai da dove veniva quella luce?”
“Da sole! Veniva dal sole perché non funzionava quando ero all’ombra dell’albero.”, rispose Marco sicuro di aver dato una risposta giusta e di meritare per questo un gesto di apprezzamento dal padre.
“Bene Marco! Vedi, la luna è come un grande specchio, un grandissimo specchio che riflette la luce del sole in modo da illuminare la notte”.

Dopo un attimo di silenzio Marco assunse un’aria interrogativa e, non convinto da quello che gli aveva rivelato suo padre, obiettò: “Ma papà, io non resto abbagliato se guardo la luna. Se guardo il sole, invece, mi bruciano gli occhi”.

A quelle parole seguì un attimo di silenzio nel quale il padre si sentii orgoglioso di avere un figlio così sveglio.

“Bravo Marco”, disse il padre arruffando scherzosamente i capelli del figlio. “Tu puoi guardare la luna perché è come uno specchio sporco, pieno di polvere. Per questo riflette molta meno luce rispetto a quella che riceve dal sole”.

“Allora perché non andiamo in cielo e puliamo la luna? Così tutti potranno vedere bene anche di notte e non ci sarà più il buio!” disse Marco pensando che la cosa fosse semplice e possibile.

In quel ragionamento dalla banalità disarmante che solo un bambino sa usare, il padre sentì qualcosa di molto grande e, posato il figlio a terra, si sedette accanto a lui e lo abbracciò prendendo a pensare intensamente.

A un certo punto, come fulminato, il padre si destò e disse al figlio: “Sai Marco, anch’io sono come uno specchio sporco. Tu, invece, sei molto pulito e stanotte mi hai accecato con un tuo riflesso. Mi hai fatto barcollare come ieri al laghetto.”

Marco non trovò un significato nelle criptiche parole del padre e, per cercare di capire, domandò: “Se anche noi siamo come specchi, qual è la luce che riflettiamo, da dove arriva, e perché non la vedo?”

All’inizio, il padre pensò che gli fosse stata rivolta la domanda più difficile della sua vita. Poi, sforzandosi di pensare come un bambino, trovò che la risposta era semplicissima.

“Noi siamo illuminati da una Stella grande e potente. Un Sole che ha illuminato il sole stesso e che ci riempie della sua luce anche se siamo al buio.”

“Come si chiama questo Sole?” chiese il bambino.

“Si chiama Amore”, rispose immediatamente il padre accorgendosi che aveva appena fatto da specchio al Sole di cui stava parlando.



Salvatore Teresi
Ippocampo

[foto © 2011 Gianni Aureli | Pubblicata su licenza dell’autore]

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