Arcobaleno scippato al tempo


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Ogni foto, lo sapete, ha una sua storia e qualcuna ne ha una che la rende un po' più interessante delle altre. Le foto sono come borseggiatori rapidissimi che scippano al tempo alcuni attimi.

Come ci insegna Wikipedia,

È difficile fotografare l'arco completo di un arcobaleno, poiché questo richiederebbe un angolo visivo di 84°. Per una fotocamera a 35 mm, una lente con una lunghezza focale di 19 mm sarebbe necessaria, mentre la maggior parte dei fotografi ha solo lenti con una larghezza angolare di 28 mm.


Per questo motivo, la foto che vedete allegata a questo post, di attimi, ne ha scippati ben quattro. Si tratta infatti di un collage di quattro immagini diverse fuse insieme via software da un'applicazione del mio iPhone, Pano (link App Store).

Poter fotografare un arcobaleno completo è sempre stato un mio piccolo sogno e riuscire a realizzarlo con un'ottica striminzita e senza saper usare Photoshop mi ha reso davvero felice. Poco importa se un traliccio dell'alta tensione ha provato a disturbare la mia opera. Non c'è riuscito. Anzi, ha sottolineato ancora di più la potenza di quell'arco colorato che solca il cielo.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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Nuvole




Esausta, Clara si era fermata un instante al margine del sentiero ed aveva sfilato dallo zaino strapieno una borraccia tutta ammaccata rivestita di feltro rosso.
"Due sorsi e si riparte", disse tra se e se.
Invece, poco distante da lei, intravide una grande roccia completamente ricoperta di morbido muschio verde.
"E se mi fermassi a riposare per un po'? Che mai saranno dieci minuti di ritardo sulla tabella di marcia?", si confortò.
E si sedette.

"Come si sta bene! Questa roccia è una poltrona naturale.", pensò.
E iniziò a guardarsi intorno, rilassata, finché il suo sguardo non si posò sul sentiero che stava percorrendo. Seguì la scia delle impronte che aveva inciso sulla terra asciutta e sabbiosa. La seguì finché divenne una linea così sottile che dovette strizzare gli occhi per distinguerla dal resto della pista.

Quando la traccia si confuse col paesaggio gli occhi si arresero e cedettero il passo alle immagini dei ricordi e allora, come la pioggia che inizia a cadere d'improvviso, Clara si ricordò dell'ultimo bivio che aveva incrociato. E poi di quello prima. E poi della biforcazione della settimana passata e così via dicendo.

Come macigni in una frana, le sue scelte passate le ricadevano addosso: "E se fossi andata a destra? E se avessi continuato verso quel boschetto di olmi? E se non avessi rifiutato il passaggio di quel fattore?"

Le lacrime cominciarono a solcare lentamente il volto della giovane viandante alimentate dalla cascata di rimpianti e di rimorsi che si era formata inaspettatamente. La tranquillità di un minuto prima era solo un ricordo e la solitudine si faceva sentire come non mai.

Ad un tratto, piegata ad un istinto intrinseco della natura umana, Clara alzò gli occhi al cielo e vide dei grossi e maestosi cumulonembi dipinti di un bianco purissimo. Come incantata, la ragazza restò a fissare le nuvole assistendo all'arte spettacolare del vento che piano piano andava modellando con maestria quella materia così delicata.

"Il vento è uno scultore paziente capace di opere tanto meravigliose quanto effimere. Non gli importa se la maggiorparte degli uomini, troppo occupata a vivere, ignora da sempre le sue sculture bianche. Non se la prende se pensa alla sorte delle sue creazioni passate, cadute come pioggia dalla vetrina del cielo. Il vento non ha rimpianti. Gli basta inspirare i poeti che restano ore e ore ad osservare l'evoluzione dei cirri. Gli basta incantare i bambini che riconoscono nelle nuvole bianche le forme più strane. Si accontenta di consolare chi è triste e cerca conforto in alto."

Tornando a guardare il sentiero da cui veniva, la viandante scoppiò in una grossa risata e volse lo sguardo in avanti con il vento che le soffiava alle spalle e le sussurrava parole di speranza.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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Inseguendo l'orizzonte


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Ero lì, a guardare il cielo, quando un grosso albatro attirò la mia attenzione e fece come per avvicinarsi a me. Con uno scatto repentino mi nascosi in una piccola cavità della roccia sulla quale mi riposavo. Ora ero al sicuro, ma godevo ancora di una visuale privilegiata su buona parte della spiaggia.

Intanto l’albatro era sceso a terra con un movimento apparentemente scoordinato e si era appollaiato in cima ad uno scoglio appuntito, a una decina di metri da dove mi trovavo. Forse non mi aveva nemmeno notato e io mi ero spaventato per nulla.

Improvvisamente vidi scattare il collo del grosso volatile in direzione di un punto preciso della spiaggia che era fuori dalla mia visuale. L’albatro sembrava spaventato anche se ancora dubbioso sul da farsi. Finalmente ruppe gli indugi e decise di alzarsi in volo con una manovra che mi parve indecisa alla pari di quella dell’atterraggio. Lo vidi allontanarsi verso il mare con grossi colpi d’ali e con le zampe che erano quasi scomparse tra le piume del corpo.

Sentii dei suoni provenire dalla direzione verso la quale l’albatro si era voltato spaventato e, pochi istanti dopo, vidi arrivare due figure che si muovevano nel bagnasciuga. Erano due uomini. Uno dei due aveva i capelli bianchi e un ciuffo di peli sul mento. L’altro, invece, doveva essere un cucciolo umano vista la grande differenza di altezza con il primo uomo.

I due si avvicinarono allo scoglio sul quale mi riparavo e, steso un piccolo telo, si sedettero sulla spiaggia. Il bambino giaceva con le gambe incrociate e giocherellava distrattamente facendo rotolare un ciottolo grigio tra le mani. Il vecchio uomo, invece, se ne stava ritto con le gambe ossute allungate davanti a sé e con lo sguardo fisso su un punto imprecisato tra le onde.

Così, nel silenzio, passarono due o tre minuti e intuì che il bambino doveva essersi stancato di mirare e rimirare il sasso levigato che teneva in mano perché lo lanciò violentemente in acqua provocando un tonfo sordo e anche qualche schizzo. A quel gesto l’uomo più anziano ebbe un sussulto, come se in quel momento si fosse destato da un sonno leggero.

“Ti ho spaventato nonno?”, chiese il bambino che si era accorto della strana reazione.
“Solo un po’.”, rispose l’anziano parente. “Ero soprappensiero”.
Sicuramente il bambino non si ritenne soddisfatto da quella risposta perché incalzò subito: “E a cosa pensavi?”.
“Non stavo pensando. Inseguivo l’orizzonte!”
“Inseguivi l’orizzonte?”, ripeté interrogativo il nipote.
“Vedi quella linea tra mare e cielo? Avevo giusto la tua età quando decisi che l’avrei raggiunta e che ci avrei camminato sopra come fa un funambolo con la sua corda.”
“E ci sei riuscito?”, chiese ingenuamente il bambino provocando un sorriso nel volto del vecchio uomo.
“No! È tutta la vita che la inseguo ma quando credo di avere fatto tanta strada, quando credo di essermi avvicinato abbastanza, mi basta alzare lo sguardo per vederla sempre là, dove l’avevo lasciata l’ultima volta. Sai tenere un segreto?”
“Certo!”
“Dopo tutti questi anni ho capito: l’importante non è toccare quella linea. L’importante è continuare ad inseguirla senza arrendersi. Anche se ti sembra impossibile, anche se qualcuno ti deride, anche se ti senti solo. Vedi, Giacomo, per quanto tu possa camminare nella sua direzione, l’orizzonte sarà sempre lì, a ricordarti che non si arriva mai. Un giorno capirai quanto ti ho rivelato e allora, quando ti siederai sulla spiaggia a guardare l’orizzonte come stavo facendo prima, capirai che hai fatto tanta strada e che ti sei avvicinato parecchio. Se avrai camminato ogni giorno nella giusta direzione potrai chiudere gli occhi e stendere la tua mano sull’orizzonte con la facilità con cui prendo questo granchio.”

A quelle parole vidi la mano rugosa dell’uomo avanzare verso di me e subito dopo mi sentii sollevare da terra. Non vedevo più nulla e per istinto iniziai ad agitare le zampe spaventato. Finalmente mi ritrovai sulla calda sabbia e ritornai a vedere. Prima di scappare in direzione del mare diedi un ultimo sguardo ai due uomini che avevano parlato in modo tanto strano e li vidi ridere di gusto mentre raccoglievano il telo e si allontanavano insieme.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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Un viaggio interiore


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C’è un solo viaggio possibile:
quello che facciamo nel nostro mondo interiore.

Non credo che si possa conoscere di più
viaggiando sul nostro pianeta.
Così come non credo che si viaggi per tornare.

L’uomo non può mai tornare
allo stesso punto da cui è partito
perché nel frattempo lui stesso è cambiato.

Da se stessi non si può fuggire.
Tutto quello che siamo lo portiamo nel viaggio.
Portiamo con noi la casa della nostra anima
come fa la tartaruga con la corazza.

In verità, il viaggio per i paesi del mondo
è per l’uomo un viaggio simbolico.
Dovunque vada è la propria anima che sta cercando.
Per questo l’uomo deve (poter) viaggiare.

Andrej Tarkowski

Avrai notato che la firma non è la mia. Ti spiego subito: per la prima volta ho deciso di pubblicare qui su Welcome To The Sea qualcosa non scritto da me ma che condivido pienamente.

In questo sito deve esserci un “pizzico di me” e quindi non penso che stoni l’inserimento, di tanto in tanto, di alcuni pensieri di autori che mi hanno trasmesso qualcosa.

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La foglia e la quercia


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Lo zaino pesava sulle mie spalle mentre percorrevo quel sentiero in salita. Non ero neanche a metà strada, eppure mi sentivo esausto. Dall’alto della sua posizione, il sole non mancava di farmi arrivare i suoi raggi che nei giorni scorsi avevano dipinto il mio naso e le mie guance di un rosso scarlatto.

Alzai gli occhi per cercare la fine di quella salita interminabile e, mentre l’ennesimo rivolo di sudore mi attraversava la fronte, notai un grande albero poco distante dal sentiero. Come chi non beve da giorni e scorge una fontanella in lontananza, raccolsi tutte le mie forze e aumentai il passo per raggiungere il più velocemente possibile l’ombra di quell’albero.

Una volta arrivato, lasciai cadere pesantemente lo zaino a terra e subito lo seguii coricandomi sull’erba e usando lo zaino come cuscino. Mentre prendevo fiato aprii gli occhi e mi resi conto che mi ero steso sotto una grande quercia; ad occhio e croce doveva avere più di cento anni.

Il vento mosse le fronde e, carezzandomi il viso, mi provocò dei piacevoli brividi che attraversarono velocemente la mia schiena. Fu a quel punto che la quercia iniziò a parlarmi.

Ciao viandante”, mi salutò. E subito prese a raccontarmi una storia mentre io ascoltavo in silenzio.


“Vedi quante foglie coprono i miei vecchi e nodosi rami? Se mi guardi da lontano non lo noti, ma ognuna di esse è diversa dalle altre ed ha una sua storia personale. Io conosco tutte le mie foglie, ricordo i loro nomi e le curo al meglio delle mie possibilità. Non manco di nutrirle ogni giorno e di farle crescere in modo che ad ognuna di esse non manchi mai il bacio del sole.

Qualche tempo fa accolsi una fogliolina e la amai fin dal primo istante. La chiamai Fiammetta perché vidi in lei una luce particolare. Fiammetta crebbe velocemente e divenne una delle foglie più belle tra quelle nate nei miei rami. I suoi lobi erano simmetrici, le sue venature erano ordinatissime ed il suo verde era paragonabile a quello di uno smeraldo puro.

Misi tutte le mie forze nel proteggere Fiammetta dal vento e da tutti i parassiti. Lei lavorava ogni giorno più di tutte le sue sorelle e produceva di più trasformando il bacio del sole in gemme preziose che mi donava immediatamente.

In una mattina di pioggia balenò nella testa di Fiammetta un pensiero mai provato prima: “Se io valgo e lavoro più di tutte le mie sorelle,” si chiese, “perché ricevo lo stesso nutrimento? Dovrei averne di più per crescere ancora e diventare più bella.”

Nell’udire questo pensiero mi rattristai parecchio e ammonii Fiammetta imponendole di non pensare più in quel modo perché nulla sarebbe cambiato. Le spiegai che io amavo lei e le sue sorelle nello stesso modo, anche se lei si impegnava di più.

Lei non apprezzò la mia risposta e si staccò dai miei rami, convinta di poter diventare una quercia più grande e più bella di me. Si staccò e si lanciò nel vuoto con l’intento di posarsi al suolo e di piantare radici sue.”



“E poi?”, osai chiedere visto che era sceso il silenzio. Il silenzio non si interruppe e capii che il racconto era finito e che dovevo ripartire. Mi alzai in piedi, misi lo zaino sulle spalle e feci un passo per ritornare al mio sentiero.

CRAC!

Sentii un forte rumore sotto il mio scarponcino da trekking e lo alzai subito per vedere cosa avevo calpestato. In mezzo all’erba verde c’era una foglia secca, contorta su se stessa. La raccolsi e la depositai alla base del tronco dell’albero.

Ritornai al mio sentiero e, continuando la salita, mi parve di sentire nel vento il pianto della quercia per la sorte di Fiammetta.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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Vento di speranza




L’eruzione era più violenta di quanto previsto. Dai nuovi crateri accessori, sorti nella notte a seguito di violenti terremoti, fuoriuscivano fiotti di lava incandescente. Spettacolari fontane di sangue lanciavano pericolosi schizzi rossastri a diversi metri di distanza.

In poche ore si erano formati sulle pendici del vulcano due fiumi di lava che, con percorsi distinti, scendevano fino alla spiaggia nera dove si riunivano prima di entrare in mare. Nel punto di quell’incontro così inusuale si era formata come una gobba sinuosa che, lentamente, andava da un rosso vivo fino ad uno spento marrone scuro. L’acqua era un continuo ribollire e la visibilità era pesantemente limitata dall’incessante formazione di vapore acqueo.

Intanto, ignari della propria fine, i due torrenti di porpora continuavano a scorrere e, di tanto in tanto, formavano percorsi imprevisti che non mancarono di passare per i magnifici boschi dell’isolotto.

Alla seconda settimana dal primo terremoto l’eruzione terminò lasciando il passo ad un panorama marziano. Ogni cosa era nerastra. Non una foglia attaccata ai rami degli alberi. Non un albero che non fosse nero come la pece o, peggio, piegato sul terreno. Visto dall’alto, l’isolotto si era ridotto ad un triste scoglio nero che forava la superficie dell’oceano.

Passò un anno prima che l’ultimo abitante abbandonasse l’isola: senza più speranza lo vidi salire sulla barca con il volto in lacrime.

Un altro anno e un altro ancora e Little Island stentava a riprendersi dalla fatica di tre anni prima.

Il miracolo arrivò una mattina di primavera: una piccola piantina, esile e indifesa, riuscì a sbucare fuori dalla lava indurita sfruttando alcune delle infinite cavità di quel minerale che, per formarsi, aveva distrutto ogni cosa. Le radici non ebbero difficoltà a trarre nutrimento da quel terreno e la pianta crebbe forte e rigogliosa.

Nei giorni successivi altre piantine forarono il manto nero e, incoraggiate dalla prima, colorarono di verde l’isolotto che divenne più bello di come fosse mai stato.

Ancora oggi, a trentanove anni dall’eruzione, passo spesso a salutare l’albero nel quale si è trasformata quella prima piantina. Mi insinuo tra le sue foglie, accarezzandole. Scombino delicatamente le fronde, muovendo i rami. Ridendo, trasporto lontano i suoi semi ricordandomi di quando, in quel giorno di primavera, depositai quel piccolo semino sulla terra nera.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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Ciao Eluana




So che prima delle 20:10 di ieri Eluana Englaro non era più la ragazza della foto sopra; non era più sorridente e non era più in carne. So anche che Eluana era viva, che respirava da sola e che apriva gli occhi quando era sveglia, proprio come faccio io.

Nel salutare Eluana, rimane vivo in me il desiderio che la sua morte possa suscitare molte riflessioni che portino a decisioni concrete.

E adesso il silenzio...

Ciao Eluana.

Salvatore Teresi
Ippocampo

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10 Febbraio 1989 - 10 Febbraio 2009


Ventesimo anniversario del primo schiaffo ricevuto!

Ippocampo

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Luna


Luna

Il piccolo Marco restò estasiato dalla visione della luna piena di quella notte. La guardava, sospesa nel cielo, appesa a una miriade di fili invisibili che non lasciavano traccia. La guardava e i suoi occhi brillavano. Il suo cuore, piano piano, si riempiva di gioia.

Papà”, disse Marco interrompendo il silenzio, “hai visto com’è bella? Hai visto quanta luce?”
Certo Marco!”, rispose il padre. “La luna è davvero meravigliosa. Vuoi sapere una cosa sulla luna?”.
“Cosa?”, rispose prontamente il bambino, fremendo per la curiosità che a quell’età rende ogni cosa eccezionale.
“Vedi”, riprese il padre, “la luna non emana luce”.

Il bambino restò dubbioso su quella risposta così assurda.

“Ma io vedo la luce”, rispose subito.

Il padre guardò il proprio figlio con uno sguardo gonfio d’amore e lo prese in braccio ridendo.

“Marco, ti ricordi di quando eravamo al laghetto, ieri mattina?”
“Certo papà! Mi sono divertito tantissimo.”
“Prima di pranzo giocavi con lo specchietto che ti ha regalato la nonna, e mi accecavi puntandomi la luce sugli occhi”

“Mi ricordo, stavi anche per cadere in acqua”, disse il bambino ridendo divertito.
“Sai da dove veniva quella luce?”
“Da sole! Veniva dal sole perché non funzionava quando ero all’ombra dell’albero.”, rispose Marco sicuro di aver dato una risposta giusta e di meritare per questo un gesto di apprezzamento dal padre.
“Bene Marco! Vedi, la luna è come un grande specchio, un grandissimo specchio che riflette la luce del sole in modo da illuminare la notte”.

Dopo un attimo di silenzio Marco assunse un’aria interrogativa e, non convinto da quello che gli aveva rivelato suo padre, obiettò: “Ma papà, io non resto abbagliato se guardo la luna. Se guardo il sole, invece, mi bruciano gli occhi”.

A quelle parole seguì un attimo di silenzio nel quale il padre si sentii orgoglioso di avere un figlio così sveglio.

“Bravo Marco”, disse il padre arruffando scherzosamente i capelli del figlio. “Tu puoi guardare la luna perché è come uno specchio sporco, pieno di polvere. Per questo riflette molta meno luce rispetto a quella che riceve dal sole”.

“Allora perché non andiamo in cielo e puliamo la luna? Così tutti potranno vedere bene anche di notte e non ci sarà più il buio!” disse Marco pensando che la cosa fosse semplice e possibile.

In quel ragionamento dalla banalità disarmante che solo un bambino sa usare, il padre sentì qualcosa di molto grande e, posato il figlio a terra, si sedette accanto a lui e lo abbracciò prendendo a pensare intensamente.

A un certo punto, come fulminato, il padre si destò e disse al figlio: “Sai Marco, anch’io sono come uno specchio sporco. Tu, invece, sei molto pulito e stanotte mi hai accecato con un tuo riflesso. Mi hai fatto barcollare come ieri al laghetto.”

Marco non trovò un significato nelle criptiche parole del padre e, per cercare di capire, domandò: “Se anche noi siamo come specchi, qual è la luce che riflettiamo, da dove arriva, e perché non la vedo?”

All’inizio, il padre pensò che gli fosse stata rivolta la domanda più difficile della sua vita. Poi, sforzandosi di pensare come un bambino, trovò che la risposta era semplicissima.

“Noi siamo illuminati da una Stella grande e potente. Un Sole che ha illuminato il sole stesso e che ci riempie della sua luce anche se siamo al buio.”

“Come si chiama questo Sole?” chiese il bambino.

“Si chiama Amore”, rispose immediatamente il padre accorgendosi che aveva appena fatto da specchio al Sole di cui stava parlando.



Salvatore Teresi
Ippocampo

[foto © 2011 Gianni Aureli | Pubblicata su licenza dell’autore]

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